Vincent Rodriguez aveva 16 anni quando, nel 1991, è stato condannato per omicidio di primo grado. L’uomo, che al momento è detenuto nel carcere di Fremont, in Colorado, non ha mai avuto uno smartphone e non si è mai iscritto a un social network. Come lui, anche Eric Davis è stato arrestato in giovane età: aveva 17 anni quando è stato condannato per omicidio e sta scontando il suo trentesimo anno di detenzione. Rodriguez e Davis usciranno dal carcere entro tre anni, ma entrambi non hanno alcuna idea di cosa gli aspetta una volta rientrati in libertà.
I due detenuti fanno parte di un programma messo in piedi dallo stato del Colorado, per rilasciare coloro che sono stati condannati a pene severe da adolescenti. Per poter uscire di prigione devono frequentare un corso di rieducazione che utilizza la realtà virtuale per conferire le capacità e le conoscenze che possono servirgli una volta usciti dal carcere. Dalle attività più semplici (fare la spesa o il bucato) al giusto comportamento in un luogo pubblico.
Il programma è stato realizzato in collaborazione con NSENA, una start up newyorkese specializzata nella creazione di software per la realtà virtuale, dedicati all’addestramento delle forze di polizia. In questo caso però, ha sviluppato un programma che immerge i detenuti in situazioni ordinarie come la spesa al supermercato con la cassa automatica o in circostanze straordinarie: si pensi, ad esempio, alle provocazioni da parte di un ubriaco in un locale o per strada. «Con questa tecnologia riusciamo nell’intento di portare il mondo esterno all’interno della prigione. Crediamo che sia molto importante mettere in piedi un percorso formativo di questo tipo», spiega il manager della compagnia intervistato per un breve documentario di Vice News, dedicato al programma di riabilitazione.
VITA E CONFLITTI QUOTIDIANI
Da una parte ci sono le situazioni di vita quotidiana, dall’altra ci sono i problemi con il mondo di fuori: a partire dagli screzi con familiari e amici. Virtual Rehab è un’altra compagnia Usa che ha sviluppato una tecnologia per la realtà virtuale in grado (oltre che a fornire consigli sulla vita di tutti i giorni) di testare anche le reazioni da parte dei detenuti a possibili situazioni di conflitto. «I soggetti potranno immergersi in episodi di violenza familiare, tra un marito e una moglie o un fidanzato e una fidanzata. In questo modo possiamo studiare le loro reazioni, per prevenire e indirizzare al meglio il loro comportamento», aveva spiegato in un’intervista a ZD Net, il manager dell’azienda Raji Wahidy. Insomma, l’obiettivo di Virtual Rehab è creare le condizioni affinché, una volta fuori dal carcere, i detenuti non caschino negli stessi errori.
E la recidività dei detenuti è un problema da non sottovalutare. Secondo uno studio pubblicato lo scorso anno dall’agenzia governativa Bureau of Justice Statistics (basato su dati e informazioni relative al quinquennio 2005 – 2010) il 68% dei detenuti, liberati entro tre anni dal rilascio, viene arrestato per un nuovo crimine. Mentre la percentuale cresce al 77% se si allarga il periodo a 5 anni dopo la liberazione. Insomma, spesso si tratta di un problema di educazione.
«Crediamo che mettere una persona nell’angolo, non gli insegni ad essere una persona migliore, ma piuttosto a come non farsi beccare la prossima volta. Per questo motivo gli strumenti che forniamo mirano a fornire non solo la conoscenza di un mestiere ma anche quelle capacità psicologiche e attitudinali per potersi reinserire nella società», spiega Wahidi, citato dalla giornalista tecnologica Alice Bonasio.
LA PAROLA D’ORDINE È EMPATIA
Oltre alla mancanza di un’educazione però, un altro problema è l’insorgere di patologie legate allo stress post traumatico della vita in prigione o di problemi mentali in genere. E secondo l’attivista per i diritti dei detenuti Christopher Zuokis, la realtà virtuale potrebbe essere utilizzata anche per il trattamento di disturbi e patologie mentali. «Se il 56% dei detenuti delle prigioni statali e il 64% di quelli delle prigioni locali soffrono di qualche forma di malattia mentale, il potere riabilitativo e i potenziali risparmi economici (poichè vengono alleggeriti i costi di eventuali terapie ndr.) nell’uso della realtà virtuale, sono degli aspetti che meritano di essere esaminati», scrive Zuokis.
Infine, la corretta riabilitazione dei detenuti passa anche attraverso la comprensione dei loro problemi e difficoltà da parte di chi non vive dall’altra parte delle sbarre. Project Empathy è una compagnia che produce piccoli cortometraggi in realtà virtuale, pensati per far approfondire all’utente i problemi della popolazione carceraria, visti attraverso gli occhi degli stessi detenuti o dei loro familiari. La serie è composta da tre episodi: The Letter, Left Behind e Prey e racconta le storie di padri di famiglia, giovani madri e adolescenti, che cercano di riallacciare i rapporti con le loro famiglie o semplicemente, raccontando il loro punto di vista sulla vita dietro le sbarre.
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